sia benedetto il tuo nome
      Sto aspettando.
Nella mia cella gelida.
Quando le campane cominciano a suonare.
Ho un’ora esatta.
Un’ora e morirò.
Un’ora alla mia morte.
Stranamente, non ho paura.
Niente passato che mi scivola davanti agli occhi.
Niente visioni mistiche, conversioni e salvezze eterne per il rotto della cuffia.
Niente colpi di scena dell’ultimo momento che cambiano improvvisamente la sentenza, e con esso, il mio destino.
Solo me.
Niente di nuovo.
C’è uno specchio nella cella, forse me l’hanno lasciato nella speranza che mi facessi paura da sola.
Niente da fare… con una faccia così, a chi voglio far paura?
Mi osservo. Le guance scavate, il labbro spaccato (il ricordo che mi ha lasciato un secondino quando gli ho chiesto se era nervoso perché stanotte non era riuscito ad incularsi il prete del carcere), occhiaie profonde e scure, sembro la versione rivisitata di scream.
Ma che importa, la gente che verrà a vedermi morire tra un’ora non vuole vedermi bella e in forma.
Non ho bisogno di esserlo.
Tanto, lei non c’è.
Se n’è andata.
I genitori l’hanno caricata su una macchina stracolma di valigie e l’hanno portata via, si sono trasferiti. Non volevano che assistesse alla mia morte, alla giusta punizione per “la cosa orribile che ho fatto”.
Lei sarebbe voluta rimanere, lo so. È una dura, lei. Mi avrebbe guardata in faccia mentre morivo, anche se mi ama. Come io amo lei.
Avrebbe voluto salutarmi un’ultima volta. Avrei voluto baciarla e asciugarle le lacrime che aveva agli occhi quando è andata via.
Ma non ho potuto.
Alla fine, abbiamo perso.
Pensavamo di sconfiggerli.
Invece, coi loro pregiudizi, con le loro emarginazioni, con le loro risatine cariche di disprezzo, mi hanno fatto impazzire.
E ho distrutto quello che c’era tra noi.
L’avvocato ha detto che avrei potuto evitare la morte, provando che al momento dell’omicidio non ero in grado di intendere e volere, provando che sono pazza.
Ma io non sono pazza.
O forse sì.
L’amore rende folli.
    Nella mia cella gelida.
Quando le campane cominciano a suonare.
Ho un’ora esatta.
Un’ora e morirò.
Un’ora alla mia morte.
Stranamente, non ho paura.
Niente passato che mi scivola davanti agli occhi.
Niente visioni mistiche, conversioni e salvezze eterne per il rotto della cuffia.
Niente colpi di scena dell’ultimo momento che cambiano improvvisamente la sentenza, e con esso, il mio destino.
Solo me.
Niente di nuovo.
C’è uno specchio nella cella, forse me l’hanno lasciato nella speranza che mi facessi paura da sola.
Niente da fare… con una faccia così, a chi voglio far paura?
Mi osservo. Le guance scavate, il labbro spaccato (il ricordo che mi ha lasciato un secondino quando gli ho chiesto se era nervoso perché stanotte non era riuscito ad incularsi il prete del carcere), occhiaie profonde e scure, sembro la versione rivisitata di scream.
Ma che importa, la gente che verrà a vedermi morire tra un’ora non vuole vedermi bella e in forma.
Non ho bisogno di esserlo.
Tanto, lei non c’è.
Se n’è andata.
I genitori l’hanno caricata su una macchina stracolma di valigie e l’hanno portata via, si sono trasferiti. Non volevano che assistesse alla mia morte, alla giusta punizione per “la cosa orribile che ho fatto”.
Lei sarebbe voluta rimanere, lo so. È una dura, lei. Mi avrebbe guardata in faccia mentre morivo, anche se mi ama. Come io amo lei.
Avrebbe voluto salutarmi un’ultima volta. Avrei voluto baciarla e asciugarle le lacrime che aveva agli occhi quando è andata via.
Ma non ho potuto.
Alla fine, abbiamo perso.
Pensavamo di sconfiggerli.
Invece, coi loro pregiudizi, con le loro emarginazioni, con le loro risatine cariche di disprezzo, mi hanno fatto impazzire.
E ho distrutto quello che c’era tra noi.
L’avvocato ha detto che avrei potuto evitare la morte, provando che al momento dell’omicidio non ero in grado di intendere e volere, provando che sono pazza.
Ma io non sono pazza.
O forse sì.
L’amore rende folli.


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